Nomi cancellati, Juan Vicente Piqueras

La mente non è una matita per prendere appunti,
è una gomma per cancellare.
Marko Vešović

Mio padre andò perdendo poco a poco il linguaggio.
E iniziò dai nomi. La prima cosa
che il suo cervello scordò non furono gli avverbi
né i pronomi o gli aggettivi,
come si sarebbe tentati di credere,
e nemmeno i granelli di polvere delle preposizioni,
ma i sostantivi.

La mela smise di essere mela,
il bicchiere diventò quello
e chi gli si avvicinava smetteva di chiamarsi.

La morte cominciò il suo minuzioso lavoro
rubandogli i nomi,
cancellandoli, mettendo
al loro posto un questo, o un quella cosa,
un dammi, un balbettio, un gesto della mano.

Gli ultimi che si perdono sono i verbi,
i verbi che si muovono nel sangue
come fossero pesci
finché il mondo finisce,
finché il corpo non regge più l’anima.

Gli aggettivi sono affettuosi,
vestono delle loro passioni quel che guardano
e perciò sopravvivono.

I nomi invece svaniscono.
E la sostanza dei sostantivi
è nebbia, fuoco di paglia, torri di fumo.

La mela smette di essere mela.
Io smetto di chiamarmi.
La parola dolore non significa nulla.

(Traduzione di Danilo Manera)

Nombres borrados

La mente no es un lápiz para tomar apuntes,
es una goma de borrar.
Marko Vešović

Mi padre fue perdiendo poco a poco el lenguaje.
Y empezó por los nombres. Lo primero
que olvidó su cerebro no fueron los adverbios
ni los pronombres ni los adjetivos,
como uno estaría tentado de creer,
ni las motas de polvo de las preposiciones,
sino los sustantivos.

La manzana dejó de ser manzana,
el vaso pasó a ser eso,
y quienes se acercaban dejaban de llamarse.

La muerte comenzó su labor minuciosa
robándole los nombres,
borrándolos, poniendo
en su lugar un esto o un aquello,
un dame, un balbuceo, un gesto de la mano.

Lo último que se pierde son los verbos,
los verbos que se mueven en la sangre
como si fuesen peces
hasta que acaba el mundo,
hasta que ya no puede el cuerpo con su alma.

Los adjetivos son afectuosos,
visten con sus pasiones lo que miran
y por eso perviven.

Pero los nombres se esfuman.
Y la sustancia de los sustantivos
es agua de borrajas, niebla, torres de humo.

La manzana deja de ser manzana.
Yo dejo de llamarme.
La palabra dolor no significa nada.

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Mao Fujita – Tchaikovsky: Romance Op. 5 (Live from Tanzsaal an der Panke, Berlin)

Fossi in te, da “Vigilia di restare” (2017), Juan Vicente Piqueras

Fossi in te mi amerei, chiamerei,
non perderei tempo, mi direi di sì.
Non dubiterei più, scapperei.
Darei quello che ho, quello che hai,
per avere quello che dai, che mi daresti.
Mi scioglierei i capelli, piangerei
di piacere, canterei scalza, ballerei,
metterei a febbraio un sole di agosto,
morirei di gusto, non metterei
nessun ma a questo amore, inventerei
nomi e verbi nuovi, tremerei
di paura di fronte al dubbio che fosse
solo un sogno, me ne andrei
per sempre da te, da lì, con me.
Fossi in te mi amerei.
Mi direi di sì, non vedrei
l’ora di correre fino alle mie braccia,
o almeno, che ne so, risponderei
ai miei messaggi, ai miei tentativi
di sapere che ne è di te, mi chiamerei,
che ne sarà di noi, e mi darei
un segnale di vita, fossi in te.

(Traduzione di Raffaella Marzano)

Yo que tú

Yo que tú me amaría, llamaría,
no perdería tiempo, me diría que sí.
No dudaría más, escaparía.
Daría lo que tienes, lo que tengo,
por tener lo que das, lo que me dieras.
Me soltaría el pelo, lloraría
de gozo, cantaría descalza, bailaría,
le pondría a febrero un sol de agosto,
moriría de gusto, no pondría
ningún pero a este amor, inventaría
nombres y verbos nuevos, temblaría
de miedo ante la duda de que fuese
sólo un sueño, me iría
para siempre de ti, de allí, conmigo.
Yo que tú me amaría.
Me diría que sí, me faltaría
tiempo para correr hasta mis brazos,
o al menos, qué sé yo, respondería
a mis mensajes, a mis tentativas
de saber qué es de ti, me llamaría,
qué va a ser de nosotros, me daría
una señal de vida, yo que tú.

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Yuja Wang – Rachmaninov Piano Concerto No 2 in C minor Op.18 – Odeonsplatz Feldherrnhalle, Munich Phil – With the Munich Philharmonic conducted by Lorenzo Viotti – 9 July 2021 – (11:22 – 2st movement!)

Bicchieri di sete, da “Adverbios de lugar” (2004), Juan Vicente Piqueras

Se dubiti della tua sete, se non osi
farle domande o darle un nome,
se sai solo che cerchi dell’acqua
che la sazi e non trovi che pozzi,
e in questi echi che ti chiamano, bevi.

Se al bere la sete scompare
era solo sete. Continua a cercare.

Ma se quando la sazi cresce in te,
se non vuoi smettere di avere sete
ma continuare a bere giorno e notte
bicchieri di sete, non c’è dubbio:
puoi chiamarla amore, continuare a soffrire,
e sapere che non esiste chi ti guidi.

(Traduzione di Raffaella Marzano)

Vasos de sed

Sin dudas de tu sed, si no te atreves
a preguntarle o a ponerle un nombre,
si sólo sabes que buscas un agua
que la sacie y no hallas sino pozos,
y en ellos ecos que te llaman, bebe.

Si la sed al beber desaparece
es que era sólo sed. Sigue buscando.

Pero si crece cuando te sacias,
si quieres no dejar de tener sed
sino seguir bebiendo día y noche
vasos de sed, no hay duda:
puedes llamarla amor, seguir sufriendo,
y saber que no existe quien te guía.

 

Mela di mare, Juan Vicente Piqueras

Io sarei il maschio e tu la femmina
vestita di tormenta.
Dormiresti
nel palmo del mare più impensato,
diadema di altra luce nei tuoi capelli,
e nelle mani remote
la sabbia fuggitiva
di noi due, deserti e felici.
Vivremmo lontano, dimentichi
del tempo, ora, in cui fummo schiavi
della nostra paura e di questo mondo
sicario assurdo al soldo della morte.
L’isola è in noi
in attesa
che la rabbia maturi e ci porti via.
Io sarei il maschio e tu la femmina.
La memoria sarebbe una mela.

(Traduzione di Raffaella Marzano)

Manzana de mar

Yo sería un varon e tú una hembra
vestida de tormenta.
Dormirías
en la palma del mar menos pensado,
diadema de otra luz en tus cabellos,
y en las manos remotas
la arena fugitiva
de nosotros, desiertos y felices.
Viviríamos lejos, olvidados
Del tempo, ahora, en que éramos esclavos,
de nuestro proprio miedo y de este absurdo
mundo, sicario a sueldo de la muerte.
La isla está en nosotros
Guardando
Que la rabia madure y se nos lleve.
Yo sería el varón y tú la hembra.
La memoria sería una manzana.

Confessione del fuggitivo, da “Adverbios de lugar” (2004), Juan Vicente Piqueras

Sono felice solo nell’andarmene.

Non tra le quattro mura, contro il petto una spada,
ma tra qua e laggiù, tra una casa e l’altra,
entrambe altrui preferibilmente.

Non posso più né voglio stare fermo.
Né ora né domani. Né qua né là.
In ogni caso lì, dove sei tu,
chiunque tu sia, metti il tuo nome
sulle mie labbra assetate, insaziabili.

Io non sono io né posso avere casa.
Non dico ormai perché mai lo sono stato
né mai ne ho avuto una, sempre forestiero
dentro e fuori di me. Sono ciò che non sono:
il barbone che dorme sotto il ponte
che unisce le mie due rive ed io attraverso
senza poter fermarmi, giorno e notte.

Scrivo perché cerco, perché spero.
Ma non so più che cosa, l’ho scordato.
Spero che scrivendo riuscirò a ricordare.
Persisto alle intemperie.

Disvivo tra parentesi
dentro lo spazio vivo e il tempo morto
dell’attesa di che cosa, tra due qui.

Mai sono in ma tra. Esci da me,
chiunque tu sia, lasciami in pace
o falla finita con me e con l’amaro
miele di stare solo a parlare da solo.

Ho deciso che la mia patria sia
non decidere, non essere in nessun posto
ma di passaggio, ponti, navi, treni,
dove io sia solo il passeggero
che so di essere, sapendo
che la pace m’inquieta,
che mi spaventa la quiete,
che la sicurezza non m’interessa,
che solo son felice sapendomi fugace.

(Traduzione di Raffaella Marzano)

Confesión del fugitivo

Sólo soy feliz yéndome.

No entre cuatro paredes, con sus sendas espadas,
sino entre aquí y allí, una casa y otra,
ajenas ambas preferiblemente.

No puedo ya, ni quiero, estarme quieto.
Ni ahora ni después. Ni aquí ni allí.
En todo caso ahí, donde estás tú,
seas quién seas tú, ponme tu nombre
en los labios sedientos, insaciables.

Yo no soy yo ni puedo tener casa.
No digo ya porque nunca lo fui,
nunca la tuve, siempre fui extranjero
dentro y fuera de mí. Soy lo que no:
el mendigo que duerme bajo el puente
que une mis dos orillas y yo cruzo
sin poder, día y noche, detenerme.

Escribo porque busco, porque espero.
Pero ya no sé qué, se me ha olvidado.
Espero que escribiendo
llegue a acordarme. Insisto en la intemperie.

Sinvivo entre paréntesis
en el espacio vivo y tiempo muerto
de la espera de qué, entre dos aquíes.

Nunca en sino entre. Sal de mí,
seas quien seas tú, déjame en paz
o acaba ya conmigo y con la miel
amarga de estar solo hablando solo.

He decidido que mi patria sea
no decidir, no estar en ningún sitio
sino de paso, puentes, naves, trenes,
donde yo sea sólo el pasajero
que sé que soy, sintiendo
que me inquieta la paz,
que la quietud me asusta,
que la seguridad no me interesa,
y sólo soy feliz cuando me sé fugaz.

“Confesión del fugitivo”  letta da Juan Vicente Piqueras

Avverbi di luogo, da “Adverbios de lugar” (2004), Juan Vicente Piqueras

Qui è dove sto io. Dovunque sia
io sempre sono qui, dove mi vedi.
Questa casa, queste facce, queste cose
stancano perché il qui stanca.
Qui fa venir sete di andarsene, sete di lì.
Ma lì è il luogo in cui mai potrò stare,
in cui io sono impossibile. Dovunque vada,
là dove arrivi diventerà qui
e starò già aspettando me stesso
con un mazzo di rose uguali nella mano.

Lì è il tuo qui.
Lì sembra un grido perché è dove ti fa male.
Io voglio essere lì, dove sei tu,
tu qui o, meglio, tutti e due laggiù, remoti, insieme,
perché è vivo quel che è insieme.
Lì c’è l’amore che non c’è qui.
Quelle cose toccate dalle tue mani,
quello che pensi, dici, taci, sogni,
quei luoghi in cui stai senza di me,
quello desidero, di quello ho bisogno.
Ed essere il tuo lì, il tuo respiro dentro.

Laggiù è la salvezza, il miraggio
nato dalla sete di star qui.
Laggiù sì che saremmo felici,
dove il tuo qui e il mio lì starebbero insieme,
e vivrebbero per sempre felici e contenti.
Laggiù c’è quella pioggia
che cade su questa lana assetata.
Laggiù è Jauja, l’Eldorado. Non ci sono parole
che possono dare l’idea di quel luogo.
Le parole sono queste, mai quelle.

Io sto qui e tu lì e laggiù noi quando.
Questo è pietra. Quello è seta. Quello laggiù è mare.

Qui, dimora impossibile, intima assenza,
odiato domicilio, carcere di ogni giorno.

Lì, calore del tu, tu vita mia,
tesoro della tua isola, aria di amore.

Laggiù, dove non siamo, piove sopra la vita
che giammai sarà nostra e che aspetta.

(Traduzione di Raffaella Marzano)

Adverbios de lugar

Aquí es donde estoy yo. Esté donde esté
yo siempre estoy aquí donde me ves.
esta casa, estas caras, estas cosas
cansan, porque aquí cansa
aquí hace sed de irse, sed de allí
pero allí es el lugar donde jamás podré estar,
donde yo soy imposible. Vaya adonde vaya,
allá donde yo llegue será aquí
y estaré ya esperándome a mí mismo
con un ramo de rosas iguales en la mano.

Ahí es tu aquí.
Ahí parece un grito porque es donde te duele.
Yo quiero estar ahí, donde estás tú,
tú aquí o, mejor, los dos allí, remotos, juntos
porque lo vivo es lo junto.
Ahí hay el amor que no hay aquí.
Esas cosas tocadas por tus manos,
eso que piensas, dices, callas, sueñas,
esos lugares donde estás sin mí,
eso deseo, eso necesito
y ser tu ahí, tu aliento intercalado.

Allí es la salvación, el espejismo
nacido de la sed de estar aquí.
Allí sí que seríamos felices,
donde tu aquí y mi ahí estarían juntos,
comerían perdices que no existen.
Allí es la lluvia aquella
que cae sobre este páramo sediento.
Allí es Jauja, el Dorado. No hay palabras
que puedan dar idea de aquel sitio.
Las palabras son éstas, nunca aquéllas.

Yo esoty aquí y tú ahí y allá nosotros cuándo.
Eso es piedra. Eso es seda. Aquello es mar.

Aquí, hogar imposible, íntima ausencia,
odiado domicio, cárcel del cada día.

Ahí, calor del tú, tu vida mía,
tesoro de tu isla, aire de amor.

Allí, donde no estamos, llueve sobre la vida
que nunca será nuestra y nos aguarda.

Vigilia di restare, da “La latitud de los caballos”, Juan Vicente Piqueras

Tutto è pronto: la valigia,
le camicie, le mappe, la vana speranza.

Tolgo la polvere dalle palpebre.
Ho messo all’occhiello
la rosa dei venti.

Tutto è a posto: il mare, l’aria, l’atlante.

Mi manca solo il quando,
il dove, un diario di bordo,
carte delle maree, venti a favore,
coraggio e qualcuno che sappia
amarmi come non so fare io.

La nave che non esiste, lo sguardo,
i rischi, le mani della meraviglia,
il filo ombelicale dell’orizzonte
che sottolinea questi versi sospensivi…

Tutto è pronto: davvero, invano.

(Trad. di Raffaella Marzano)

Víspera de quedarse

Todo está preparado: la maleta,
las camisas, los mapas, la fatua esperanza.

Me estoy quitando el polvo de los párpados.
Me he puesto en la solata
la rosa de los vientos.

Todo está a punto: el mar, el aire, el atlas.

Sólo me falta el cuándo,
el adónde, un quaderno de bitácora,
cartas de marear, vientos propicios,
valor y alguien que sepa
quererme como no sé hacerlo yo.

El barco que no esiste, la mirada,
los peligros, las manos del asombro,
el hilo umbelical del horizonte
que subraya estos versos suspensivos…

Todo está preparado: en serio, en vano.

Cabriel, Juan Vicente Piqueras

All’improvviso, ponte o pietra, la luce, la pace in me.
E questo fiume che scorre attraverso me
in modo limpido, primordiale, poderoso.

Una goccia d’acqua cade dalla mia fronte sulla mia ombra
come se fosse pianto. È meraviglia,
nutrimento silenzioso, per sempre.

Manca la fede negli uomini, ma ancora
è possibile nuotare, ridere nudi,
stendersi al sole, mangiare more mature
e farsi portare dalla corrente
come da coloro che amiamo, e prendere
lezioni di trasparenza da queste acque.

Se sapessi dimenticarmi del pronome
della prima persona, sarei null’altro
che un luccichio di luce fra i rami di un pioppo,
un acenno di voce, una libellula,
una gioia semplice, senza parole,
la luce attraverso me, la pace in me.

All’improvviso, ponte o pietra, luce io stesso.

(Traduzione di Raffaella Marzano)

Cabriel

De pronto, puente o piedra, la luz, la paz en mí.
Y este río que fluye a mi través
de una manera limpia, primera, poderosa.

Una gota de agua cae de mi frente a mi sombra
como si fuese llanto. Es maravilla,
alimento callado, para siempre.

Falta la fe en lo humano, pero aún
es posible nadar, reír desnudos,
tumbarse al sol, comer moras maduras
y dejarse llevar por la corriente
como por lo que amamos, y tomar
lección de transparencia de estas aguas.

Si supiese olvidarme del pronombre
de primera persona, sería nada más
un destello de luz en las ramas de un chopo,
un ramo de rumor, una libélula,
una dicha sencilla, sin palabras,
la luz a mi través, la paz en mí.

De pronto, puente o piedra, luz yo mismo.

Palme, Juan Vicente Piqueras

Nasciamo dalla sete. Siamo palme
che crescono a forza di perdere
i propri rami. I tronchi son ferite,
cicatrici rimarginate dal vento e dalla luce,
quando il tempo, quello che fa e quello che passa,
occupa il cuore e lo trasforma in nido
di perdite, ne erige
il suo tempio, la sua aspra colonna.

E per questo le palme sono allegre
come quelli che hanno saputo soffrire in solitudine
e ora si cullano nell’aria, spazzano nubi
e dalle loro chiome consegnano
cantici alla luce, fonti di fuoco,
ventagli a Dio, addio a tutto.
Tremano, testimoni di un miracolo
che conoscono soltanto loro.

Siamo come la sete delle palme
e ogni ferita aperta verso la luce
ci fa sempre più alti, più felici.
Perdite sono i nostri tronchi, trono
il nostro dolore. Non è bello
soffrire ma bisogna aver sofferto
per sentire, annidata nel sangue,
la meraviglia dei sopravvissuti
che ringraziano l’aria, e scoppiare
per l’alta gioia in mezzo al deserto.

(Trad. di Raffaella Marzano)

Palmeras

Nacemos de la sed. Somos palmeras
que van creciendo a fuerza de perder
sus ramas. Y sus troncos son heridas,
cicatrices que el viento y la luz cierran,
cuando el tiempo, el que hace y el que pasa,
ocupa el corazón y lo hace nido
de pérdidas, erige
en él su templo, su áspera columna.

Por eso las palmeras son alegres
como los que han sabido sufrir en soledad
y se mecen al aire, barren nubes
y entregan en sus copas
salomas a la luz, fuentes de fuego,
abanicos a dios, adiós a todo.
Tiemblan como testigos de un milagro
que sólo ellas conocen.

Somos como la sed de las palmeras,
y cada herida abierta hacia la luz
nos va haciendo más altos, más alegres.
Nuestros troncos son pérdidas. Es trono
nuestro dolor. Es malo
sufrir pero es preciso haber sufrido
para sentir, como un nido en la sangre,
el asombro de los supervivientes
al aire agradecidos, y estallar
de alta alegría en medio del desierto.

I traduttori, Juan Vicente Piqueras

Sono una tribù strana dispersa per il mondo
perché spostano il mondo.
Portano mondi da una lingua all’altra.
Ecco il loro mestiere.

Fanno nevicare in arabo,
cambiano il nome al mare,
portano cammelli dal Sahara in Svezia,
fanno sì che don Chisciotte cavalchi Ronzinante
dalla Mancha alla Manciuria.
Fanno cose strane, pressappoco impossibili.
Dicono nella propria lingua
cose che mai quella lingua aveva detto prima,
cose che nemmeno sapeva di poter dire.

Sono nati da un crollo, accaduto a Babele,
e da un sogno: che un giorno
le anime oggi agli antipodi,
si conoscano, si capiscano e si amino.

Sono una tribù muta:
danno la loro voce ad altre voci.
Sono diventati invisibili a forza d’umiltà.
Per secoli il loro lavoro fu anonimo.
Loro che vivono di nomi e tra i nomi,
non avevano un nome.

Nella liturgia della letteratura
vengono trattati come chierichetti.
Sono invece pontefici: quelli che tendono i ponti
tra le isole di lingue lontane, quelli che sanno
che tutte le lingue sono straniere,
che tutto tra noi è traduzione.
Sono una tribù strana sparsa per il mondo
perché stanno spostando il mondo,
perché stanno salvando il mondo.

(Traduzione di Raffaella Marzano)

Los traductores

a Borges, y a los traductores que no traicionan

Son una tribu extraña dispersa por el mundo
porque mudan el mundo.
Trasladan mundos de una lengua a otra.
Ése es su oficio.

Hacen nevar en árabe,
cambian el nombre al mar,
llevan camellos del Sahara a Suecia,
hacen que don Quijote cabalgue a Rocinante
de La Mancha a Manchuria.
Hacen cosas extrañas, casi casi imposibles.
Dicen en su lengua cosas
que jamás esa lengua había dicho antes,
cosas que no sabía que pudiera decir.

Nacieron de un derrumbe, ocurrido en Babel,
y de un sueño: que un día
las almas hoy antípodas
se conozcan, se entiendan y se amen.

Son una tribu muda:
dan su voz a otras voces.
Se hicieron invisibles a fuerza de humildad.
Durante siglos su labor fue anónima.
Ellos, que viven de nombres y entre nombres,
no tenían un nombre.

En la liturgia de la literatura
son tratados como los monaguillos.
En cambio son pontífices: los que tienden los puentes
entre las islas de lenguas lejanas, los que saben
que todas las lenguas son extranjeras,
que entre nosotros todo es traducción.
Son una tribu extraña dispersa por el mundo
porque están mudando el mundo,
porque están salvando el mundo.

Translators

to Borges and to the translators who are not traitors

They are a strange tribe found throughout the world
because they move the world.
They transport worlds from one language to another.
That’s their craft.
They make it snow in Arabic,
change the sea’s name,
bring camels
to Sweden,
make Don Quixote ride Rocinante
from La Mancha to Manchuria.
They do strange, nearly impossible things.
They say things in their own language
which that language had never said before,
things it didn’t even know it could say.
They were born out of cataclysm, the Tower of Babel,
and from a dream: that souls
living at the antipodes
might know and understand and love one another.
They are a mute tribe:
they lend their voice to other voices.
They’ve become invisible owing to humility.
For centuries they were also anonymous.
They, who live by names and with names,
did not have a name.
In the liturgy of literature
they are often treated like altar boys.
Instead they are true pontiffs: those who build bridges
between islands of far-flung languages, who know
that all languages are foreign,
that everything between us is translation.
They are a strange tribe found throughout the world
because they are moving the world,
because they are saving the world.

(Translated by Anne Milano Appel)