In che lingua si dice, in che nazione, in che altra umanità s’è mai imparato la parola che metta ordine nel caos che in questo turbinio s’è formato? Che sussurro di vento, che dorato canto d’uccello su alti rami posato può dire, con suoni, le cose che, tacendo, nel silenzio degli occhi confessiamo?
(Traduzione di Fernanda Toriello)
No silêncio dos olhos
Em que língua se diz, em que nação, Em que outra humanidade se aprendeu A palavra que ordene a confusão Que neste remoinho se teceu? Que murmúrio de vento, que dourados Cantos de ave pousada em altos ramos Dirão, em som, as coisas que, calados, No silêncio dos olhos confessamos?
José Saramago Os Poemas Possíveis Lisboa, Caminho, 1999
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Brahms Waltz Op 39 No.15 Beatrice Rana, Yannick Nézet-Séguin (Conductor)
Se non ho altra voce per sdoppiare in echi d’altri suoni il mio silenzio, parlerò, parlerò, finché non esca la parola nascosta di ciò che penso.
E la dirò, sfinito, tra deviazioni di freccia che avvelena anche se stessa, o altro mare addensato di vascelli dove il braccio annegato ci fa cenno.
E spingerò in fondo una radice se la pietra miliare la via sbarra, e lancerò in alto quanto dice che più albero è il tronco che è più solo.
E lei dirà, parola ora scoperta, tutti i detti del vivere consueto: quest’ora che sconforta e che conforta, il non vedere, il non avere, il quasi essere.
(Traduzione di Fernanda Toriello)
Se não tenho outra voz…
Se não tenho outra voz que me desdobre Em ecos doutros sons este silêncio, É falar, ir falando, até que sobre A palavra escondida do que penso.
É dizê-la, quebrado, entre desvios De flecha que a si mesma se envenena, Ou mar alto coalhado de navios Onde o braço afogado nos acena.
É forçar para o fundo uma raiz Quando a pedra cabal corta caminho É lançar para cima quanto diz Que mais árvore é o tronco mais sozinho.
Ela dirá, palavra descoberta, Os ditos do costume de viver: Esta hora que aperta e desaperta, O não ver, o não ter, o quase ser.
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Nothing Else Matters – Metallica – William Joseph feels the Rain
Il silenzio rotondo della notte sul pentagramma dell’infinito.
Me ne vado nudo per la strada carico di versi perduti. Il nero, crivellato dal canto del grillo, ha questo fuoco fatuo, morto, del suono. Questa luce musicale che lo spirito intuisce.
Scheletri di farfalle a mille dormono nel mio recinto.
C’è una giovinezza di brezze pazze sopra il fiume.
(Traduzione di Claudio Rendina)
Hora de estrellas
El silencio redondo de la noche sobre el pentagrama del infinito.
Yo me salgo desnudo a la calle, maduro de versos perdidos. Lo negro, acribillado por el canto del grillo, tiene ese fuego fatuo, muerto, del sonido. Esa luz musical que percibe el espíritu.
Los esqueletos de mil mariposas duermen en mi recinto.
Hay una juventud de brisas locas sobre el río.
Hour of Stars
The round silence of night, one note on the stave of the infinite.
Ripe with lost poems, I step naked into the street. The blackness riddled by the singing of crickets: sound, that dead will-o’-the-wisp, that musical light perceived by the spirit.
A thousand butterfly skeletons sleep within my walls.
A wild crowd of young breezes over the river.
― Federico García Lorca, Selected Poems, 1920
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Ana Vidovic plays Asturias by Isaac Albéniz on a Jim Redgate classical guitar
Fu a Berlino, d’inverno. La luce
era senza luce, senza cielo il cielo.
L’aria bianca come un pane bagnato.
E dalla mia finestra un circo solitario
morso dai denti d’inverno.
Improvvisamente, condotti da un uomo,
dieci cavalli uscirono dalla nebbia.
Ondeggiarono appena, uscendo, come il fuoco,
ma pei miei occhi empirono il mondo
vuoto fino a quell’ora. Perfetti, accesi,
erano come dieci déi dalle lunghe zampe pure,
dai crini simili al sonno del sale.
Le loro groppe erano mondi e arance.
Il colore era miele, ambra, incendio.
I loro colli erano torri
tagliate nella pietra dell’orgoglio,
e agli occhi furiosi si affacciava
come una prigioniera, l’energia.
E lì in silenzio, in mezzo
al giorno dell’inverno sudicio e disorientato,
i cavalli intensi erano il sangue,
il ritmo, l’incitante tesoro della vita.
Guardai, guardai e allora rivissi: senza saperlo
lì era la fonte, la danza dell’oro, il cielo,
il fuoco che viveva nella bellezza.
Ho dimenticato l’inverno di quella Berlino oscura.
Non dimenticherò la luce dei cavalli.
Caballos
Vi desde la ventana los caballos.
Fue en Berlín, en invierno. La luz
era sin luz, sin cielo el cielo.
El aire blanco como un pan mojado.
Y desde mi ventana un solitario circo
mordido por los dientes del invierno.
De pronto, conducidos por un hombre,
diez caballos salieron a la niebla.
Apenas ondularon al salir, como el fuego,
pero para mis ojos ocuparon el mundo
vacío hasta esa hora. Perfectos, encendidos,
eran como diez dioses de largas patas puras,
de crines parecidas al sueño de la sal.
Sus grupas eran mundos y naranjas.
Su color era miel, ámbar, incendio.
Sus cuellos eran torres
cortadas en la piedra del orgullo,
y a los ojos furiosos se asomaba
como una prisionera, la energía.
Y allí en silencio, en medio
del día, del invierno sucio y desordenado,
los caballos intensos eran la sangre,
el ritmo, el incitante tesoro de la vida.
Miré, miré y entonces reviví: sin saberlo
allí estaba la fuente, la danza de oro, el cielo,
el fuego que vivía en la belleza.
He olvidado el invierno de aquel Berlín oscuro.
No olvidaré la luz de los caballos.
Horses
It was from a window I first saw the horses.
It was winter in Berlin: a light
with no light, a sky without sky.
The air white as a loaf of wet bread.
And there, by the window, bitten off
by the teeth of the winter, a deserted arena.
Then, all of a sudden, ten horses
led by a man, moved into the snow.
Their passing left hardly a ripple, like fire,
but they filled a whole universe
void to my eyes, until then. Ablaze
with perfection, they moved like ten gods, colossal
and grand in the hoof, with dreamy and elegant manes.
Their rumps were like planets or oranges.
Their color was honey and amber and fire.
Their necks were like pillars
carved in the stone of their arrogance,
and out of vehement eyes their energy
glared from within like a prisoner.
There, in the silence of midday
in a soiled and slovenly winter
the horses’ intensity was rhythm
and blood, the importunate treasure of being.
I looked-looked till my whole force reawakened.
This was the innocent fountain, the dance in the gold,
the sky, the fire still alive in the beautiful.
I’ve forgotten the wintry gloom of Berlin.
I will never forget the light of the horses.
(Translated from Spanish by Ben Belitt)
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Hans Zimmer – Now we are free – The Horse Whisperer
Oh no che non è una parola,
ben poco da dire ci resta:
e non è nemmeno una sola
occhiata, né un cenno di testa.
E’ solo un silenzio del cuore
che ha un carico troppo pesante,
è solo il risveglio di tante
memorie dal tenue sopore.
(Traduzione di Silvio Raffo)
“It Is Not A Word”
It is not a word spoken,
Few words are said;
Nor even a look of the eyes
Nor a bend of the head,
But only a hush of the heart
That has too much to keep,
Only memories waking
That sleep so light a sleep.
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Martynas Levickis – Shallow (A Star Is Born) feat Ignė Pikalavičiūtė & Mikroorkéstra
Oggi passo il tempo a leggere
uno dei miei haiku preferiti,
a ripeterne e ripeterne le parole.
Sembra di mangiare
e tornare a mangiare
lo stesso piccolo, perfetto chicco d’uva.
Cammino per la casa recitandolo
e lascio che le sue lettere cadano
nell’aria di ogni stanza.
Sto accanto al grande silenzio del pianoforte e lo dico.
Lo dico davanti a un quadro del mare.
Batto il suo ritmo su uno scaffale vuoto.
Mi ascolto mentre lo dico,
poi lo dico senza ascoltarmi,
poi lo ascolto senza dirlo.
E quando il cane guarda in su verso di me,
mi inginocchio sul pavimento
e lo sussurro in ciascuna delle sue lunghe orecchie bianche.
È quello sulla campana del tempio
di una tonnellata
con la falena che dorme sulla sua superficie,
e ogni volta che lo dico, sento l’atroce
pressione della falena
sulla superficie della campana di ferro.
Quando lo dico alla finestra,
la campana è il mondo
e io sono la falena che lì si riposa.
Quando lo dico allo specchio,
io sono la campana pesante
e la falena è la vita con le sue ali di carta.
E più tardi, quando te lo dico al buio,
tu sei la campana,
e io sono il batacchio della campana, che ti fa suonare,
e la falena è volata via
dal suo verso
e si muove sul nostro letto come un cardine nell’aria.
(Traduzione di Franco Nasi)
Japan
Today I pass the time reading
a favorite haiku,
saying the few words over and over.
It feels like eating
the same small, perfect grape
again and again.
I walk through the house reciting it
and leave its letters falling
through the air of every room.
I stand by the big silence of the piano and say it.
I say it in front of a painting of the sea.
I tap out its rhythm on an empty shelf.
I listen to myself saying it,
then I say it without listening,
then I hear it without saying it.
And when the dog looks up at me,
I kneel down on the floor
and whisper it into each of his long white ears.
It’s the one about the one-ton temple bell
with the moth sleeping on its surface,
and every time I say it, I feel the excruciating
pressure of the moth
on the surface of the iron bell.
When I say it at the window,
the bell is the world
and I am the moth resting there.
When I say it at the mirror,
I am the heavy bell
and the moth is life with its papery wings.
And later, when I say it to you in the dark,
you are the bell,
and I am the tongue of the bell, ringing you,
and the moth has flown
from its line
and moves like a hinge in the air above our bed.
_______________________________________ By the Japanese poet and painter Buson (1715 – 1783):
“On the one-ton temple bell
A moon-moth, folded into sleep,
sits still.” (Translated by XJ Kennedy)
From: “The Norton Anthology of Poetry”, page 1190
Quando la morte viene
come l’orso affamato in autunno;
quando la morte viene e tira fuori dal suo borsellino
tutte le monete scintillanti
per comprarmi, e chiude il borsellino di scatto;
quando la morte viene
come una pestilenza di morbillo;
quando la morte viene
come un iceberg fra le scapole,
io voglio affacciarmi alla porta piena di curiosità, domandandomi:
come sarà mai, quel cottage d’oscurità?
E perciò guardo ogni cosa
come una fratellanza e una sorellanza,
e vedo il tempo come nient’altro che un’idea,
e considero l’eternità un’altra possibilità,
e penso ad ogni vita come a un fiore, comune
come una margherita dei campi, e altrettanto singolare,
e ad ogni nome come a una piacevole musica in bocca,
che tende, perché tutta la musica lo fa, verso il silenzio,
e ad ogni corpo come a un leone di coraggio, e a qualcosa
di prezioso per la terra.
Quando sarà finita, voglio dire: per tutta la vita
sono stata una sposa maritata alla meraviglia.
Sono stata lo sposo, e ho preso il mondo fra le mie braccia.
Quando sarà finita, non voglio chiedermi
se ho fatto della mia vita qualcosa di particolare e di vero.
Non voglio trovarmi a sospirare, e spaventata,
e piena di recriminazioni.
Non voglio finire avendo semplicemente visitato questo mondo.
(Traduzione di Maria G. Di Rienzo)
When Death Comes
When death comes
like the hungry bear in autumn;
when death comes and takes all the bright coins from his purse
to buy me, and snaps the purse shut;
when death comes
like the measle-pox
when death comes
like an iceberg between the shoulder blades,
I want to step through the door full of curiosity, wondering:
what is it going to be like, that cottage of darkness?
And therefore I look upon everything
as a brotherhood and a sisterhood,
and I look upon time as no more than an idea,
and I consider eternity as another possibility,
and I think of each life as a flower, as common
as a field daisy, and as singular,
and each name a comfortable music in the mouth,
tending, as all music does, toward silence,
and each body a lion of courage, and something
precious to the earth.
When it’s over, I want to say all my life
I was a bride married to amazement.
I was the bridegroom, taking the world into my arms.
When it’s over, I don’t want to wonder
if I have made of my life something particular, and real.
I don’t want to find myself sighing and frightened,
or full of argument.
I don’t want to end up simply having visited this world.