C’è chi, da “Basta così” (2012), Wislawa Szymborska

C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
È tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.

È lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.

Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.

Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più,
perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio.

E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.

A volte un po’ lo invidio
– per fortuna mi passa.

(Traduzione di Silvano De Fanti)

Są tacy, którzy

Są tacy, którzy sprawniej wykonują życie.
Mają w sobie i wokół siebie porządek.
Na wszystko sposób i słuszną odpowiedź.
Odgadują od razu kto kogo, kto z kim,
w jakim celu, którędy.
Przybijają pieczątki do jedynych prawd,
wrzucają do niszczarek fakty niepotrzebne,
a osoby nieznane
do z góry przeznaczonych im segregatorów.
Myślą tyle, co warto,
ani chwilę dłużej,
bo za tą chwilą czai się wątpliwość.
A kiedy z bytu dostaną zwolnienie,
opuszczają placówkę
wskazanymi drzwiami.
Czasami im zazdroszczę
– na szczęście to mija.

There Are Those Who

There are those who conduct life more precisely.
The keep order within and around them.
A way for everything, and a right answer.

The guess straight off who’s with who, who’s got who,
to what end, in what direction.

They set their stamp on single truths,
toss unnecessary facts into the shredder
and unfamiliar persons
into previously designated files.

They think as long as it takes,
not a second more,
since doubt lies lurking behind that second.

And when they’re dismissed from existence,
they leave their place of work
through the appropriately marked exit.

Sometimes I envy them
– it passes, luckily.

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David Garrett & Band – “Imagine” (John Lennon) – Terme di Caracalla, 25.07.22

David Garrett nel tour “ALIVE” alle Terme di Caracalla a Roma (IT): un concerto spettacolare in una cornice antica. David suona brani evergreen, rock e pop, ma anche arrangiamenti classici. Questi pezzi significano molto per lui, perché fanno parte della colonna sonora della sua vita.
Il concerto è disponibile su Arte Concert fino al 23/10/2022.

Stupore, da “Ogni caso” (1972), Wislawa Szymborska

Perché mai a tal punto singolare?
Questa e non quella? E qui che ci sto a fare?
Di martedì? In una casa e non nel nido?
Pelle e non squame? Non foglia, ma viso?
Perché di persona una volta soltanto?
E sulla terra? Con una stella accanto?
Dopo tante ere di non presenza?
Per tutti i tempi e tutti gli ioni?
Per i vibrioni e le costellazioni?
E proprio adesso? Fino all’essenza?
Sola da me e con me? Perché mi chiedo,
non a lato, né a miglia di distanza,
non ieri, né cent’anni addietro, siedo
e guardo un angolo buio della stanza
come, rizzato il capo, sta a guardare
la cosa ringhiante che chiamano cane?

(Traduzione di Pietro Marchesani)

Lo “stupore” di Wislawa Szymborska tradotto anche come “meraviglia”, è una semplice poesia di sedici versi in cui la poetessa pone una serie di domande sul motivo per cui esiste in questo mondo nella forma in cui esiste. Il poema profondamente filosofico pone dieci domande sul sé umano, sul posto di una persona nel mondo e sulla natura dell’esistenza, ma non offre risposte a questi enigmi. Piuttosto, c’è qualche suggerimento sul fatto che a queste domande metafisiche non si possa rispondere affatto e che la migliore risposta al mondo complesso e imperscrutabile sia quella dello stupore perché l’atto di porre domande non si avvicina allo svelare i misteri dell’esistenza.

Astonishment

Why after all this one and not the rest?
Why this specific self, not in a nest,
but a house? Sewn up not in scales, but skin?
Not topped off by a leaf, but by a face?
Why on earth now, on Tuesday of all days,
and why on earth, pinned down by this star’s pin?
In spite of years of my not being here?
In spite of seas of all these dates and fates,
these cells, celestials and coelenterates?
What is it really that made me appear
neither an inch nor half a globe too far,
neither a minute nor aeons too early?
What made me fill myself with me so squarely?
Why am I staring now into the dark
and muttering this unending monologue
just like the growling thing we call a dog?

(Translated from Polish by Stanislaw Baranczak and Clare Cavanagh)

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Igor Stravinsky: Le Sacre du printemps (revised version from 1947) / Sir Simon Rattle, conductor · Berliner Philharmoniker / Recorded at the Berlin Philharmonie, 9 November 2012

Il classico, da “Ogni caso” (1972), Wislawa Szymborska

Qualche zolla di terra, e la vita sarà dimenticata.
La musica si libererà dalle circostanze.
Si calmerà la tosse del maestro sui minuetti.
E saranno tolti i cataplasmi.
Il fuoco divorerà la parrucca piena di polvere e pidocchi.
Spariranno le macchie d’inchiostro dal polsino di pizzo.
Finiranno tra i rifiuti le scarpe, scomode testimoni.
Il violino verrà preso dall’allievo meno dotato.
Saranno tolti dagli spartiti i conti del macellaio.
Le lettere della povera madre finiranno in pancia ai topi.
L’amore sfortunato svanirà nel nulla.
Gli occhi smetteranno di lacrimare.
Il nastro rosa servirà alla figlia dei vicini.
I tempi, grazie a Dio, non sono ancora romantici.
Tutto ciò che non è quartetto
come quinto sarà scartato.
Tutto ciò che non è quintetto
come sesto sarà soffiato via.
Tutto ciò che non è un coro di quaranta angeli
tacerà come guaito di cane e singulto di gendarme.
Verrà tolto dalla finestra il vaso con l’aloe,
il piatto con il moschicida e il vasetto di pomata,
e apparirà – ma sì – la vista sul giardino,
il giardino che lì non c’era mai stato.
E ora ascoltate, ascoltate, o mortali,
stupefatti tendete attenti l’orecchio,
o assorti, o stupiti, o rapiti mortali,
ascoltate – ascoltatori – mutati in udito.

(Traduzione di Pietro Marchesani)

Klasyk

Kil­ka grud zie­mi a bę­dzie za­po­mnia­ne ży­cie.
Mu­zy­ka wy­swo­bo­dzi się z oko­licz­no­ści.
Ucich­nie ka­szel mi­strza nad me­nu­eta­mi.
I ode­rwa­ne będą ka­ta­pla­zmy.
Ogień stra­wi pe­ru­kę peł­ną ku­rzu i wszy.
Znik­ną pla­my in­kau­stu z ko­ron­ko­we­go man­kie­tu.
Pój­dą na śmiet­nik trze­wi­ki, nie­wy­god­ni świad­ko­wie.
Skrzyp­ce za­bie­rze so­bie uczeń naj­mniej zdol­ny.
Po­wyj­mo­wa­ne będą z nut ra­chun­ki od rzeź­ni­ka.
Do my­sich brzu­chów tra­fią li­sty bied­nej mat­ki.
Uni­ce­stwio­na zga­śnie nie­for­tun­na mi­łość.
Oczy prze­sta­ną łza­wić.
Ró­żo­wa wstąż­ka przy­da się cór­ce są­sia­dów.
Cza­sy, chwa­lić Boga, nie są jesz­cze ro­man­tycz­ne.
Wszyst­ko, co nie jest kwar­te­tem,
bę­dzie jako pią­te od­rzu­co­ne.
Wszyst­ko, co nie jest kwin­te­tem,
bę­dzie jako szó­ste zdmuch­nię­te.
Wszyst­ko, co nie jest chó­rem czter­dzie­stu anio­łów,
zmilk­nie jako psi sko­wyt i czkaw­ka żan­dar­ma.
Za­bra­ny bę­dzie z okna wa­zon z alo­esem,
ta­lerz z trut­ką na mu­chy i sło­ik z po­ma­dą,
i od­sło­ni się wi­dok – ależ tak! – na ogród,
ogród, któ­re­go ni­g­dy tu nie było.
No i te­raz słu­chaj­cie, słu­chaj­cie, śmier­tel­ni,
w zdu­mie­niu pil­nie nad­sta­wiaj­cie ucha,
o pil­ni, o zdu­mie­ni, o za­słu­cha­ni śmier­tel­ni,
słu­chaj­cie – słu­cha­ją­cy – za­mie­nie­ni w słuch.

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Tchaikovsky: Symphony No.5 In E Minor, Op.64, TH.29 – 4. Finale (Andante maestoso – Allegro vivace) · Wiener Philharmoniker · Valery Gergiev (Released on: 1999-01-01)

Scorcio di secolo, da “Gente sul ponte”(1986), Wislawa Szymborska

Doveva essere migliore degli altri il nostro ventesimo secolo.
Non farà più in tempo a dimostrarlo,
ha gli anni contati,
il passo malfermo,
il fiato corto.

Sono ormai successe troppe cose
che non dovevano succedere,
e quel che doveva arrivare
non è arrivato.

Ci si doveva avviare verso la primavera
e la felicità, tra l’altro.

La paura doveva abbandonare i monti e le valli.
La verità doveva raggiungere la meta
prima della menzogna.

Alcune sciagure
non dovevano più accadere,
ad esempio la guerra
e la fame, e così via.

Doveva essere rispettata
l’inermità degli inermi,
la fiducia e via dicendo.

Chi voleva gioire del mondo
si trova di fronte a un’impresa
impossibile.

La stupidità non è ridicola.
La saggezza non è allegra.
La speranza
non è più quella giovane ragazza
et cetera, purtroppo.

Dio doveva finalmente credere nell’uomo
buono e forte,
ma il buono e il forte
restano due esseri distinti.

Come vivere? – mi ha scritto qualcuno
a cui io intendevo fare
la stessa domanda.

Da capo, e allo stesso modo di sempre,
come si è visto sopra,
non ci sono domande più pressanti
delle domande ingenue.

(Traduzione di Pietro Marchesani)

The Century’s Decline

Our twentieth century was going to improve on the others.
It will never prove it now,
now that its years are numbered,
its gait is shaky,
its breath is short.

Too many things have happened
that weren’t supposed to happen,
and what was supposed to come about
has not.

Happiness and spring, among other things,
were supposed to be getting closer.

Fear was expected to leave the mountains and the valleys.
Truth was supposed to hit home
before a lie.

A couple of problems weren’t going
to come up anymore:
humger, for example,
and war, and so forth.

There was going to be respect
for helpless people’s helplessness,
trust, that kind of stuff.

Anyone who planned to enjoy the world
is now faced
with a hopeless task.

Stupidity isn’t funny.
Wisdom isn’t gay.

Hope
isn’t that young girl anymore,
et cetera, alas.

God was finally going to believe
in a man both good and strong,
but good and strong
are still two different men.

“How should we live?” someone asked me in a letter.
I had meant to ask him
the same question.

Again, and as ever,
as may be seen above,
the most pressing questions
are naïve ones.

(Translated from Polish by Stanislaw Baranczak and Clare Cavanagh)

Nell’arca, da “Gente sul ponte”(1986), Wislawa Szymborska

Comincia a cadere una pioggia incessante.
Nell’arca, e dove mai potreste andare:
voi, poesie per una sola voce,
slanci privati,
talenti non indispensabili,
curiosità superflua,
afflizioni e paure di modesta portata,
e tu, voglia di guardare le cose da sei lati.

I fiumi s’ingrossano e straripano.
Nell’arca: voi, chiaroscuri e semitoni,
voi, capricci, ornamenti e dettagli,
stupide eccezioni,
segni dimenticati,
innumerevoli varianti del grigio,
il gioco per il gioco,
e tu, lacrima del riso.

A perdita d’occhio, acqua e l’orizzonte nella nebbia.
Nell’arca: piani per il lontano futuro,
gioia per le differenze,
ammirazione per i migliori,
scelta non limitata a uno dei due,
scrupoli antiquati,
tempo per riflettere,
e tu, fede che tutto ciò
un giorno potrà ancora servire.

Per riguardo ai bambini
che continuiamo ad essere,
le favole sono a lieto fine.

Anche qui non c’è altro finale che si addica.
Smetterà di piovere,
caleranno le onde,
nel cielo rischiarato
si apriranno le nuvole
e saranno di nuovo
come si addiceva alle nuvole sugli uomini:
elevate e leggere
nel loro somigliare
a isole felici,
pecorelle,
cavolfiori
e pannolini
– che si asciugano al sole.

(Traduzione di Pietro Marchesani)

Into the Ark

An endless rain is just beginning.
Into the ark, for where else can you go,
you poems for a single voice,
private exultations,
unnecessary talents,
surplus curiosity,
short-range sorrows and fears,
eagerness to see things from all six sides.

Rivers are swelling and bursting their banks.
Into the ark, all you chiaroscuros and half-tones,
you details, ornaments, and whims,
silly exceptions,
forgotten signs,
countless shades of the color gray,
play for play’s sake,
and tears of mirth.

As far as the eye can see, there’s water and hazy horizon.
Into the ark, plans for the distant future,
joy in difference,
admiration for the better man,
choice not narrowed down to one of two,
outworn scruples,
time to think it over,
and belief that all this
will come in handy someday.

For the sake of the children
that we still are,
fairy tales have happy endings.
That’s the only finale that will do here, too.
The rain will stop,
the waves will subside,
the clouds will part
in the cleared up sky,
and they’ll be once more
what clouds ought to be:
lofty and rather lighthearted
in their likeness to things
drying in the sun—
isles of bliss,
lambs,
cauliflowers,
diapers.

(Translated from Polish by Stanislaw Baranczak and Clare Cavanagh)

Vietnam, da “Discorso all’Ufficio oggetti smarriti” (2004), Wislawa Szymborska

Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perche’ ti sei scavata una tana sottoterra? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perché mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Sì.

(Traduzione di Pietro Marchesani)

Vietnam

“Woman, what’s your name?” “I don’t know.”
“How old are you? Where are you from?” “I don’t know.”
“Why did you dig that burrow?” “I don’t know.”
“How long have you been hiding?” “I don’t know.”
“Why did you bite my finger?” “I don’t know.”
“Don’t you know that we won’t hurt you?” “I don’t know.”
“Whose side are you on?” “I don’t know.”
“This is war, you’ve got to choose.” “I don’t know.”
“Does your village still exist?” “I don’t know.”
“Are those your children?” “Yes.”

E’ un’intensa poesia sulla guerra in Vietnam e sul potere dell’amore materno.
Un dialogo tra soldati e una donna traumatizzata che gli shock della guerra hanno gettato in “modalità sopravvivenza”. Il suo senso di sé è crollato insieme alla sua società: non sa come si chiama, chi sono questi uomini, da quanto tempo si è rifugiata in una tana o da che parte sta la guerra.
Tutto quello che sa è che ha i suoi figli
.

Grande numero, da “Grande numero” (1976), Wislawa Szymborska

Quattro miliardi di uomini su questa terra,
ma la mia immaginazione è uguale a prima.
Se la cava male con i grandi numeri.
Continua a commuoverla la singolarità.
Svolazza nel buio come la luce d’una pila,
illumina solo i primi visi che capitano,
mentre il resto se ne va nel non visto,
nel non pensato, nel non rimpianto.
Ma questo neanche Dante potrebbe impedirlo.
E figuriamoci quando non lo si è.
Anche se tutte le Muse venissero a me.

Non omnis moriar – un cruccio precoce.
Ma vivo intera? E questo può bastare?
Non è mai bastato, e tanto meno adesso.
Scelgo scartando, perché non c’è altro modo,
ma quello che scarto è più numeroso,
è più denso, più esigente che mai.
A costo di perdite indicibili – una poesiola, un sospiro.
Alla chiamata tonante rispondo con un sussurro.
Non dirò di quante cose taccio.
Un topo ai piedi della montagna materna.
La vita dura qualche segno d’artiglio sulla sabbia.

Neppure i miei sogni sono popolati come dovrebbero.
C’è più solitudine che folle e schiamazzo.
Vi capita a volte qualcuno morto da tempo.
Una singola mano scuote la maniglia.
La casa vuota si amplia di annessi dell’eco.
Dalla soglia corro giù nella valle
silenziosa, come di nessuno, già anacronistica.

Da dove venga ancora questo spazio in me –
non so.

(Traduzione di Pietro Marchesani)

A Great Number

Four billion people on this earth,
while my imagination remains as it was.
It clumsily copes with great numbers.
Still it is sensitive to the particular.
It flutters in the dark like a flashlight,
and reveals the first random faces
while all the rest stay unheeded,
unthought of, unlamented.
Yet even Dante could not retain all that.
And what of us?
Even all the Muses could not help.

Non omnis moriar–a premature worry.
Yet do I live entire and does it suffice?
It never sufficed, and especially now.
I choose by discarding, for there is no other means
but what I discard is more numerous,
more dense, more insistent that it ever was.
A little poem, a sigh, cost indescribable losses.
A thunderous call is answered by my whisper.
I cannot express how much I pass over in silence.
A mouse at the foot of a mountain in labor.
Life lasts a few marks of a claw on the sand.
My dreams–even they are not, as they ought to be, populous.

There is more of loneliness in them than of crowds and noise.
Sometimes a person who died long ago drops in for a moment.
A door handle moves touched by a single hand.
An empty house is overgrown with annexes of an echo.
I run from the threshold down into the valley
that is silent, as if nobody’s, anachronic.

How that open space is in me still–
I don’t know.

(Translated from Polish by Czeslaw Milosz)

Funerale, da “Gente sul ponte” (1986), Wislawa Szymborska

“così all’improvviso chi poteva pensarlo”
“lo stress e le sigarette, io glie lo dicevo”
“così così, grazie”
“scarta quei fiori”
“anche per il fratello fu il cuore, dev’essere di famiglia”
“con questa barba non l’avrei mai riconosciuto”
“se l’è voluto, era un impiccione”
“doveva parlare quello nuovo, ma non lo vedo”
“Kazek è a Varsavia, Tadek all’estero”
“tu sola hai avuto la buona idea di prendere l’ombrello”
“era il più in gamba di tutti, e a che gli è servito?”
“è una stanza di passaggio, Baska non la vorrà”
“certo, aveva ragione, ma non è un buon motivo”
“con la verniciatura delle portiere, indovina quanto”
“due tuorli, un cucchiaio di zucchero”
“non erano affari suoi che bisogno aveva”
“soltanto azzurre e solo numeri piccoli”
“cinque volte, mai una risposta”
“d’accordo, avrei potuto, ma anche tu potevi”
“meno male che almeno lei aveva quel piccolo impiego”
“bè, non so, probabilmente parenti”
“il prete è un vero Belmondo”
“non ero mai stata in questa parte del cimitero”
“l’ho sognato la settimana scorsa, un presentimento”
“niente male la figliola”
“ci aspetta tutti la stessa fine”
“le mie condoglianze alla vedova, devo fare in tempo a”
“però in latino era più solenne”
“è la vita”
“arrivederla, signora”
“e se ci bevessimo una birra da qualche parte”
“telefonami, ne parleremo”
“con il quattro o con il dodici”
“io vado per di là”
“noi per di qua”

(Traduzione di Pietro Marchesani)

Una giocosità linguistica elegante in questa poesia che consiste semplicemente in una serie di frasi strappate dalla conversazione tra le persone durante un funerale.
Lo stato d’animo del lutto, la rinnovata consapevolezza della mortalità, le parole di commiserazione attese in un funerale ci sono, ma sono mescolate a banali frammenti di conversazione. Anche in un’occasione così dolorosa e cupa la vita va avanti.

Funeral

“so suddenly, who would’ve expected it”
“stress and cigarettes, I told him”
“not bad, thank you”
“unwrap these flowers”
“his brother’s heart did him in too, must run in the family”
“I wouldn’t have recognized you with that beard”
“it’s his own fault, he was always getting himself into something”
“that new guy was supposed to speak. I don’t see him anywhere”
“Kazek is in Warsaw, Tadek went abroad”
“you were the only one with enough sense to bring an umbrella”
“so what that he was the most talented of them all”
“it’s a walk-through room, Baska won’t go for it”
“sure he was right, but that still isn’t really the reason”
“and a paint job on both doors, guess how much”
“two egg yolks, one tablespoon sugars”
“it was none of his business, why did he mess with it”
“only in blue, and in small sizes”
“five times with no answer”
“all right, I could have done it, but so could you have”
“good thing she had that part-time job”
“I don’t know, maybe the relatives”
“the priest is a veritable Belmondo”
“I’ve never been to this part of the cemetery”
“I dreamed about him last week, something struck me”
“the daughter’s not bad-looking”
“it happens to all of us”
“give my best to the widow, I have to make it to”
“it sounded much more solemn in Latin”
“it came and went”
“good-bye Ma’am”
“let’s go grab a beer somewhere”
“call me, we’ll talk”
“either No. 4 or 12”
“I’m going this way”
“we’re not”

(Translated from Polish by Joanna Maria Trzeciak)

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Teodor Currentzis | Patricia Kopatchinskaja | Dowland: Weep you no more, sad fountains | SWR Symphonieorchester

La moglie di Lot, da “Grande numero” (1976), Wislawa Szymborska

Guardai indietro, dicono, per curiosità,
ma potevo avere, curiosità a parte, altri motivi.
Guardai indietro rimpiangendo la mia coppa d’argento.
Per distrazione – mentre allacciavo il sandalo.
Per non dover più guardare la nuca proba
di mio marito, Lot.
Per l’improvvisa certezza che se fossi morta
non si sarebbe neppure fermato.
Per la disobbedienza degli umili.
Per tendere l’orecchio agli inseguitori.
Colpita dal silenzio, sperando che Dio ci avesse ripensato.
Le nostre due figlie stavano già sparendo oltre la cima del colle.
Sentii in me la vecchiaia. Il distacco.
La futilità del vagare. Il torpore.
Guardai indietro posando per terra il fagotto.
guardai indietro non sapendo dove mettere il piede.
Sul mio sentiero erano apparsi serpenti,
ragni, topi di campo, piccoli di avvoltoio.
Non più buoni né cattivi – ogni cosa vivente
strisciava e saltava in un panico collettivo, semplicemente.
Guardai indietro per solitudine.
Per la vergogna di fuggire di nascosto.
Per la voglia di gridare, di tornare.
O forse solo quando si alzò il vento
che mi sciolse i capelli e sollevò la veste.
Mi parve che dalle mura di Sodoma lo vedessero
e scoppiassero in risa fragorose più e più volte.
Guardai indietro per l’ira.
Per saziarmi della loro grande rovina.
Guardai indietro per queste ragioni.
Guardai indietro non per mia volontà.
Fu solo una roccia a girarsi, ringhiando sotto di me.
Fu un crepaccio a tagliarmi d’improvviso la strada.
Sul bordo trotterellava un criceto ritto su due zampette.
E fu allora che entrambi ci voltammo a guardare.
No, no. Io continuavo a correre,
mi trascinavo e sollevavo,
finché il buio non piombò dal cielo,
e con esso ghiaia ardente ed uccelli morti.
Mancandomi l’aria, mi rigirai più volte.
Chi mi avesse visto poteva pensare che danzassi.
Non escludo che i miei occhi fossero aperti.
È possibile che sia caduta con il viso rivolto verso la città.

(Traduzione di Pietro Marchesani)

Lot’s Wife

They say I looked back out of curiosity.
But I could have had other reasons.
I looked back mourning my silver bowl.
Carelessly, while tying my sandal strap.
So I wouldn’t have to keep staring at the righteous nape
of my husband Lot’s neck.
From the sudden conviction that if I dropped dead
he wouldn’t so much as hesitate.
From the disobedience of the meek.
Checking for pursuers.
Struck by the silence, hoping God had changed his mind.
Our two daughters were already vanishing over the hilltop.
I felt age within me. Distance.
The futility of wandering. Torpor.
I looked back setting my bundle down.
I looked back not knowing where to set my foot.
Serpents appeared on my path,
spiders, field mice, baby vultures.
They were neither good nor evil now–every living thing
was simply creeping or hopping along in the mass panic.
I looked back in desolation.
In shame because we had stolen away.
Wanting to cry out, to go home.
Or only when a sudden gust of wind
unbound my hair and lifted up my robe.
It seemed to me that they were watching from the walls of Sodom
and bursting into thunderous laughter again and again.
I looked back in anger.
To savor their terrible fate.
I looked back for all the reasons given above.
I looked back involuntarily.
It was only a rock that turned underfoot, growling at me.
It was a sudden crack that stopped me in my tracks.
A hamster on its hind paws tottered on the edge.
It was then we both glanced back.
No, no. I ran on,
I crept, I flew upward
until darkness fell from the heavens
and with it scorching gravel and dead birds.
I couldn’t breathe and spun around and around.
Anyone who saw me must have thought I was dancing.
It’s not inconceivable that my eyes were open.
It’s possible I fell facing the city.

(Translated from Polish by Stanislaw Baranczak and Clare Cavanagh)

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Zurcaroh & Helene Fischer @ Helene Fischer Show 2018 – Song: “Ninkou Latora” from “Cirque Du Soleil”

L’acrobata, da “Uno spasso” (1967), Wislawa Szymborska

Da trapezio a
trapezio, nel silenzio dopo
dopo un rullo di tamburo di colpo muto, attraverso
attraverso l’aria stupefatta, più veloce del
del peso del suo corpo che di nuovo
di nuovo non ha fatto in tempo a cadere.

Solo. O anche meno che solo,
meno, perché imperfetto, perché manca di
manca di ali, gli mancano molto,
una mancanza che lo costringe
a voli imbarazzati su una attenzione
senza piume ormai soltanto nuda.

Con faticosa leggerezza,
con paziente agilità,
con calcolata ispirazione. Vedi
come si acquatta per il volo? Sai
come congiura dalla testa ai piedi
contro quello che è? Lo sai, lo vedi

con quanta astuzia passa attraverso la sua vecchia forma e
per agguantare il mondo dondolante
protende le braccia di nuovo generate?

Belle più di ogni cosa proprio in questo
proprio in questo momento, del resto già passato.

(Traduzione di Pietro Marchesani)

In senso figurato questa poesia parla della nostra mortalità, ricordandoci la brevità della vita, e rafforzando così la necessità di sfruttare il poco tempo che abbiamo e la necessità di usare questo tempo con saggezza. Attraverso l’esempio di un acrobata, un artista, Szymborska ci mostra che non tutto dura e che le aspettative spesso portano alla delusione poiché le cose inevitabilmente non sono come avremmo pensato.

The Acrobat

From trapeze to
to trapeze, in the hush that
that follows the drum roll’s sudden pause, through,
through the startled air, more swiftly than
than his body’s weight, which once again
again is late for its own fall.

Solo. Or even less than solo,
less, because he’s crippled, missing
missing wings, missing them so much
that he can’t miss the chance
to soar on shamefully unfeathered
naked vigilance alone.

Arduous ease,
watchful agility,
and calculated inspiration. Do you see
how he waits to pounce in flight; do you know
how he plots from head to toe
against his very being; do you know, do you see

how cunningly he weaves himself through his own former shape
and works to seize this swaying world
by stretching out the arms he has conceived–

beautiful beyond belief at this passing
at this very passing moment that’s just passed.

(Translated from Polish by Stanislaw Baranczak and Clare Cavanagh)

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